Storia delle povere operaie abbruciate nel cotonificio l’8 marzo. Aehm: peccato che non siano mai esistite.

Tutti conoscono la storia drammatica.
8 marzo 1875: centoventinove operaie dell’industria tessile Cotton, a New York, si barricano all’interno della fabbrica per scioperare. Chiedono maggiori diritti, riduzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali; il proprietario della fabbrica, in tutta risposta, spranga le porte e chiude dentro le giovani operaie. Circa l’incendio che scoppiò poco dopo, nessuno riuscì mai ad appurare con certezza se si trattò di fatalità o di atto doloso. Fatto sta che l’intero edificio fu presto balia delle fiamme; le donne imprigionate al suo interno andarono incontro a una morte orribile. È in memoria di queste ragazze coraggiose che noi, ogni 8 marzo, ricordiamo la “giornata della donna”.

La storia la conoscevate già, scommetto?
Benissimo: non è vero niente.

Non è mai esistita a New York un’industria tessile di nome Cotton e, più in generale, nessuna fabbrica è andata a fuoco a New York l’8 marzo 1875.
Se cercate online, trovate una variante della leggenda che postdata il tragico rogo all’8 marzo 1908. Peggio che andar di notte: nel 1908 continuavano a non esistere filande newyorkesi di nome “Cotton”, gli edifici industriali continuavano a non prender fuoco e le operaie, grazie a Dio, continuavano a dormire sogni tranquilli (anche perché, in quell’anno, l’8 marzo era una domenica).
Niente da fare: se vi eravate affezionate all’idea di “festa delle donne” nata in memoria delle operaie morte sul posto di lavoro, temo che dovrete rassegnarvi. La storia dell’incendio al cotonificio è una bufala bella e buona, e se oggi ci regaliamo mimose all’8 marzo lo facciamo per ben altre ragioni.

Se non ci credete ancora, vi basti questo dato di fatto. La prima “giornata della donna” si tiene negli Stati Uniti nel 1909 nella data del 23 febbraio. È una domenica e l’idea piace: per un bel po’ di tempo, negli Stati Uniti, la Giornata della Donna sarà una “festa mobile” celebrata, di anno in anno, l’ultima domenica del mese.
La notizia di questa nuova ricorrenza attraversa l’oceano e giunge alle orecchie di Clara Zetkin, membro del partito socialista tedesco. Clara (che all’interno del suo partito si occupava di questioni femminili) propone che, una volta all’anno, si celebri a livello internazionale una giornata dedicata alla condizione femminile. L’idea strapiace. Nell’anno del Signore 1911, la “giornata della donna” diventa internazionale essendo celebrata (oltre che dalle cittadine statunitensi) anche dai partiti socialisti di Austria, Germania, Svizzera e Danimarca.
In quale data? Negli States, l’ultima domenica di febbraio; nel Vecchio Mondo, domenica 19 marzo.

Piano piano, la “giornata della donna” comincia a guadagnare successo all’interno dei partiti socialisti degli altri Stati europei; di anno in anno si registra una popolarità della festa. Che in questo momento è peraltro una festa politica, legata a un partito ben preciso. Non stiamo parlando, per capirci, di mazzolini di mimose e girl pride; stiamo parlando di marce per la richiesta di più diritti: voto, tutele legali, aumento della retribuzione. Era una giornata dedicata all’attivismo politico, non agli auguri galanti alla propria bella.

Arriviamo così al 1917: il 23 febbraio, coordinate dal partito socialista, centinaia di donne russe scendono in strada per commemorare la “giornata della donna”.
Nella Mosca del 1917 le donne volevano tante cose ma il desiderio più impellente era quello di avere un po’ di cibo nel piatto e un marito tornato dal fronte. Insomma, le cittadine di Mosca scendono in piazza per protestare contro la guerra che sta mettendo in ginocchio il Paese; denunciano le misere condizioni di vita del comune cittadino russo.
Si lamentano con la forza della disperazione e portano avanti la loro protesta anche quando la polizia cerca di farle sgomberare. Il coraggio di queste donne ha una grande eco, colpisce il cuore dei cittadini: di lì a poco, anche i maschi arriveranno a dar loro manforte proclamando uno sciopero generale. Le file dei manifestati sono sempre più fitte, lo zar è sempre più intransigente e ordina di reprimere la protesta a tutti i costi… il resto è (letteralmente) Storia.
Avete presente la “rivoluzione di febbraio”, no? Ecco: è partita così.
I tempi erano maturi e sarebbe partita lo stesso, ma una delle scintille che hanno acceso la miccia è stata proprio la coraggiosa protesta delle donne russe.

Cosa c’entra la rivoluzione di febbraio con l’8 marzo, mi chiederete?
C’entra: perché in Russia, all’epoca, si usava ancora il calendario giuliano. La famosa “rivoluzione di febbraio” di cui parlano i libri di scuola ha avuto luogo in quello che, in Russia, era il mese di febbraio… ma che, per il resto del mondo, era già inizio marzo. Fra calendario giuliano e calendario gregoriano c’è un gap di qualche giorno, com’è noto.
In particolar modo, lo sciopero delle donne russe del 23 febbraio 1917 ha avuto luogo in quel giorno che che, sul calendario occidentale, era segnato come 8 marzo. E visto il risultato niente male prodotto da queste compagne coraggiose, il partito socialista ebbe aggio a proporre, di lì a pochi anni, che la giornata internazionale della donna fosse ricordata proprio l’8 marzo in memoria del glorioso evento.
E così, naturalmente, fu.

***

Se mi avete dato credito di fiducia fino a qua, potrete cominciare a capire da dove arriva la “versione alternativa” con cotonificio infuocato e scioperanti morte.
Facendo l’esempio del nostro piccolo orticello, posso dirvi che la prima “giornata internazionale della donna”, qui in Italia, è stata celebrata l’8 marzo 1946. Ed ecco, ehm: diciamo che festeggiare in Italia, nel 1946, una giornata delle donne che alludeva a un evento determinante per lo scoppio della rivoluzione russa… non era cosa, per usare un eufemismo.
Non era proprio praticabile, nel bel mezzo della Guerra Fredda. Non era pensabile; non esisteva al mondo che una persona sana di mente residente nel blocco NATO provasse il desiderio di dire “auguri” alla sua sposa nel giorno in cui – in pratica – si commemorava l’avvento della dittatura comunista in Russia.
Eppure, negli anni ’20 e ’30, la “festa della donna” aveva guadagnato popolarità, si era diffusa, piaceva… quindi, perché rinunciarci? Solo per l’imbarazzo nel dover spiegare come mai proprio l’8 marzo?

Dev’essere stato questo il ragionamento fatto dai circoli socialisti moderati nei vari Paesi del blocco NATO. E così, comincia pian piano a circolare una lezione alternativa a spiegazione della misteriosa data dell’8 marzo. Ci si inventa una storia tutto sommato verosimile, e di forte impatto emotivo, che ci parla di tante giovani donne che lottano per i loro diritti (paladine socialiste per davvero!) e che muoiono tragicamente sul loro posto di lavoro…

Difficile dire dove abbia avuto origine questa diceria. Gli storici che hanno fatto ricerche sulla materia dicono le prime attestazioni della versione “incendio alla filanda” sono attestate in Francia nella prima metà degli anni ’50. Da lì in poi, la leggenda si estende a macchia d’olio in tutti i Paesi che celebrano la festa… fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui persino le scuole continuano a riproporre la triste storia delle scioperanti morte abbruciate.

***

Tutte invenzioni, quindi? Un menzogna bella e buona?
Beh: come capita sempre in questi casi, c’è una briciola di verità a cui appigliarsi.
Un tragico incendio in una fabbrica di tessuti newyorkese ha effettivamente avuto luogo a inizio ‘900. Pensate: ha avuto luogo addirittura nel mese giusto – il 25 marzo 1911, per la precisione. La tragedia si consumò alla Triangle Shirtwaist Factory, una fabbrica che produceva in serie camicette di cotone strette in vita (le shirtwaist, per l’appunto), tanto di moda a inizio Novecento.

Queste, per capirci.
Queste, per capirci.

L’industria dava lavoro a circa mezzo migliaio di impiegati, pagati poco… ma, onestamente, manco pagati una miseria (credo che molti stagisti d’oggi sarebbero disposti a fare cambio). Le impiegate erano prevalentemente donne, ma non mancavano all’appello neanche gli uomini; la maggioranza dei lavoratori erano ebrei e/o immigrati, perlopiù tedeschi e italiani.

Operai della Triangle al lavoro, in una foto d'epoca
Operai della Triangle al lavoro, in una foto d’epoca

Il 25 marzo, verso le quattro e mezza del sabato pomeriggio, successe alla Triangle qualcosa di tragico. Secondo alcuni, si trattò di un cortocircuito ad una macchina da cucire; secondo la maggioranza, si trattò di un operaio che pensò bene di buttare un mozzicone di sigaretta ancora fumante nel cestino della carta straccia. Cesto dentro al quale erano appena state buttate un centinaio di veline, utilizzate come cartamodello per le camicette di cotone.
La velina prende fuoco con un niente; e così l’incendio divampò rapidamente fino a lambire il cotone leggero delle camicie che erano ammonticchiate sul tavolo vicino al cesto della carta straccia. Prese fuoco anche il tavolo, presero fuoco i filati, presero fuoco le stoffe che riempivano la stanza; prese fuoco il pavimento in legno. L’incendio divampò velocissimo, creando una cortina di fiamme fra le stanze degli operai e le uscite che avrebbero permesso loro di mettersi in salvo.
Ci sarebbe stata un’uscita secondaria, ma la porta era chiusa a chiave come di consuetudine in quell’azienda, per evitare che gli operai sgattaiolassero fuori dall’uscita di servizio prendendosi “pause caffè” non concordate.

Le fiamme salirono fino al piano superiore: la Triangle, per colmo di disgrazia, occupava i livelli 8, 9 e 10 di un palazzo a dieci piani, e l’incendio scoppiò proprio al piano numero 8. Mentre il fuoco si allargava facendo presa sui materiali infiammabilissimi che trovava sul suo cammino, gli impiegati dei piani superiori si trovarono letteralmente bloccati da una barriera di fiamme che che impedì loro di buttarsi verso le scale. Alcuni provarono a mettersi in salvo utilizzando la scala di sicurezza posta all’esterno dell’edificio, ma quella non resse alla sollecitazione e crollò, trascinando con sé tutti i malcapitati. Altri cercarono rifugio sul tetto, e in effetti ebbero successo. Altri ancora sopravvissero grazie all’altruismo dei due coraggiosi ascensoristi, che continuarono a fare su e giù per mettere in salvo quante più persone possibili profittando del fatto che il vano ascensore si trovava in un angolino non ancora toccato dall’incendio. Ma le fiamme a un certo punto arrivarono anche lì.
Furono moltissimi, quelli che non riuscirono a salvarsi; quasi centocinquanta persone persero la vita nella tragedia. Centoventitré donne e ventitré uomini, per la precisione

I proprietari della ditta – che erano riusciti a sopravvivere mettendosi in salvo sul tetto – furono ovviamente processati, perché a nessuno era sfuggito il terribile dettaglio: tanti degli operai avrebbero potuto avere salva la vita, se quelle maledette porte di servizio non fossero state chiuse a chiave. Certo: quelle non erano le uniche porte dello stabilimento (come talvolta erroneamente si legge in giro) e infatti molti operai riuscirono a  mettersi in salvo per altre vie – ma se quelle porte secondarie che erano sprangate, fossero in realtà rimaste aperte? Quante vite si sarebbero salvate, in questo modo?

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Detto ciò, l’incendio della fabbrica Triangle fu un episodio drammatico che colpì nel profondo l’opinione pubblica dell’epoca… ma, beh, non c’entra niente con la festa della donna.
L’incendio non avvenne l’8 marzo e gli operai stavano lavorando tranquillamente, altro che scioperare. La tragedia smosse sì le coscienze, ma più in un ottica di sicurezza sul lavoro (…del resto, che c’entravano i diritti delle donne? In quel caso, il problema mica era stato dato dal trattamento delle operaie sottopagate).
‘nsomma: l’incendio della Triangle non ebbe luogo l’8 marzo e non è mai stato collegato in alcun modo alla situazione delle donne lavoratrici. Non è nemmeno chiaro, onestamente, se la genesi della leggenda “rogo alla filanda Cotton” sia legata a questo fatto storico realmente accaduto: magari quella dell’incendio alla filanda è una storiella inventata a tavolino e siamo noi che, a posteriori, abbiamo provato a ricollegarla a questa tragedia dopo aver spulciato tutti i giornali d’epoca alla disperata ricerca di cotonifici newyorkesi andati in fiamme.

Detto ciò, è ovvio che nulla ci vieta di festeggiare (magari, con questa nuova consapevolezza su cosa stiamo festeggiando)… e quindi, signore in linea: buon 8 marzo a tutte!

12 risposte a "Storia delle povere operaie abbruciate nel cotonificio l’8 marzo. Aehm: peccato che non siano mai esistite."

    1. Lucia

      Secondo la nostra specifica variante nazionale della leggenda, c’era un albero di mimose nel cortile dell’inesistente cotonificio Cotton >.>

      In realtà a quando leggevo le mimose sono associate alla festa della donna solo qui in Italia; in altri Paesi non è tradizione relagare fiori, e/o, nel caso, si regalano fiori di altro tipo. (Leggo che in Francia ad esempio è tradizione regalare un mazzo di violette).
      A quanto pare, la mimosa è stata associata alla festa della donna, qui in Italia, fin dal 1946, e cioè fin dalla prima festa della donna celebrata dalle nostre parti. Il fiore era stato scelto dall’Unione Donne Italiane (promotrice dell’evento), perché era un fiore molto “povero” che si trovava in abbondanza, in Italia, verso l’inizio di marzo. Il concetto era che la mimosa è un fiore più o meno alla portata di tutte le tasche, quindi qualsiasi uomo avrebbe potuto permettersi di procurarsene un mazzetto, per omaggiare le “sue” donne.

      🙂

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    2. Lucia

      Ad esempio leggo qui:

      Secondo i racconti dell’epoca, si voleva usare come fiore simbolo della festa la violetta, un fiore con una lunga tradizione nella sinistra europea: uno dei sostenitori di questa idea era il vice-segretario del Partito Comunista Luigi Longo. Alcune dirigenti del Partito Comunista però si opposero: la violetta era un fiore costoso e difficile da trovare. L’Italia era appena uscita dalla guerra e molti si trovavano in condizioni economiche precarie e avrebbero avuto molte difficoltà a procurarsi le violette. Tra loro c’era Teresa Mattei, una ex partigiana che negli anni successivi avrebbe continuato a battersi per i diritti delle donne. Di lei è diventato leggendario uno scambio che ebbe con un deputato liberale a proposito della parità tra uomini e donne all’interno della magistratura: «Signorina, ma lei lo sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?», chiese il deputato. E lei rispose: «Ci sono uomini che non ragionano tutti i giorni del mese».
      Mattei, insieme a Rita Montagna e Teresa Noce, propose di adottare un fiore molto più economico, che fiorisse alla fine dell’inverno e che era facile da trovare nei campi: da qui nacque l’idea della mimosa. Anni dopo, in un’intervista Mattei disse: «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente».

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  1. zimisce

    Ciao, che blog interessante!
    Sulla festa delle donne e altre feste moderne, io mi sono fatto l’idea che ci sia stato il tentativo (più o meno conscio) di creare un periodo di festività “laiche” che richiamassero le festività del periodo natalizio, non per sostituirle ma per farle apparire superate dal progresso dei tempi e all’umanità che “esce dal suo stato di minorità” (simili in questo al progetto dei rivoluzionari francesi). Infatti sono tutte feste primaverili, adatte accompagnare il sole di un nuovo avvenire. Anche le date mi sembrano non casuali:
    8 marzo = 8 dicembre. Festa della donna moderna lavoratrice ed emancipata contrapposta alla festa della Madonna tradizionale e assertiva.
    25 aprile = 25 dicembre (ok questa solo italiana. E non si può imputare agli alleati di aver fatto l’offensiva apposta in questo giorno. Però molte città italiane furono liberate prima o dopo questa data ma questa fu scelta). Festa dell’umanità che si libera da sola, senza bisogno di salvatori.
    1 maggio=1 gennaio. Festa del nuovo inizio, inaugurato dall’uomo lavoratore, faber fortunae suae.

    Forse sono troppo complottista?

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    1. Lucia

      Ehi! Mi ero persa questo commento all’epoca, rispondo adesso a distanza di… ehm… due anni… però sì, sarebbe in effetti curioso sapere in che modo sono state scelte esattamente queste (e altre) date per festività “laiche”.
      Oh, da qualche parte ci sarà pur scritta una ragione, a cercar bene!
      Non so se tu sia troppo complottista o meno 😉 però sarebbe interessante capire come mai la tal cosa si festeggia nel giorno X e non Y… una ragione a monte ci sarà pure!

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  2. zimisce

    E comunque il cotonificio cotton sa troppo di storia inventata. È come in quelle storie di Topolino dove viene svaligiata la gioielleria “de Preziosis”

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  5. Francesca

    Ciao, ecchime ☺️ . Riportato sul mio blog con tutti crediti del caso. Ti ringrazio e metto qui una domanda, o meglio: un sospetto che mi rimane.
    I collegamenti tra la storia inesistente della fantomatica Cotton e la storia vera della Triangle mi sembrano troppi per considerarli delle mere coincidenze (o ricerche disperate di un incendio in una fabbrica).
    Cioè: ok, non ci piove che la storia della Cotton è stata decisa a tavolino (su quale tavolino non sappiamo) però di tavolini che s’incrociano qua ne abbiamo già tanti, uno più uno meno… E la Cotton pare la cronaca corretta e adattata della Triangle! (Il nome, poi, concordo che è studiato pure quello per funzionare worldwide).

    Insomma, faccio prima a fare la lista:
    – il numero delle povere operaie morte: quasi identico, 123 e 129. Più probabile che sia giusto il numero 129 (anche per la stessa Triangle)… Perché purtroppo è risaputo che in certi disastri ci sono feriti gravissimi che muoiono dopo qualche giorno.
    – il settore tessile
    – la porta sprangata per cattiveria, per trattamento disumano, per crudeltà (in entrambi i casi!)
    – causa del disastro: incendio
    – stessa città
    – stesso mese

    E poi, visto che ci fu davvero un grande incendio – e visto che era ben noto perché aveva colpito l’opinione pubblica (trovo improbabile che i “tavolini”, quando si sono riuniti, non lo sapessero)… Perché “i tavolini” non si sono direttamente riferiti alla Triangle?
    Io, profana, ma osservatrice (se vuoi fantasiosa) me lo spiego così: come hai già spiegato tu, c’erano ottimi motivi per “occultare” gli avvenimenti di Mosca. (Tra l’altro da qualche parte ho letto che in Russia c’era proprio istituzionalizzata la data dell’8 marzo come la “Giornata dell’operaia”… Non ho idea se esiste ancora).
    Però… C’erano pure parecchi motivi per “occultare” qualche dettaglio della Triangle nella trasposizione romanzata della Cotton. Alcuni motivi li hai già detti tu. Personalmente ne vedo anche altri (e li tralascio per brevità), ma il fatto è che incrociando le casalinghe russe con le operaie americane e sistemando i dettagli indesiderati… Ne usciva il cocktail giusto per la battaglia e/o propaganda politica di un certo tipo. (E d’altra parte, ‘ste robe le vediamo di continuo anche oggi, in ogni parte politica, nessuna esclusa).

    Ultima osservazione: alla narrazione erano necessarie delle operaie sfruttate e poi morte in modo terribile.
    (Di sicuro se ne potevano trovare ovunque, ma serviva qualcosa di “forte” e servivano tutti gli elementi insieme). E neanche gli eventi russi – al di là della guerra fredda in corso – soddisfacevano i requisiti perché si trattava di… Casalinghe. È solo in tempi recenti che siamo arrivati a riconoscere il valore del lavoro in casa…
    Quindi, per concludere: incrociando gli elementi di diverse storie si poteva ottenere una motivazione “degna” per l’8 marzo “politico”.
    Dopodiché, io direi che oggi – già da decenni, esclusi ambienti intellettuali d’élite – l’8 marzo è uscito dalla politica intesa in senso stretto.
    Ho visto il tentativo (credo recente) di cambiare terminologia – Giornata eccetera, anziché Festa – e richiamare i vecchi tempi …però dappertutto io vedo scritto Festa della Donna… E per la gente comune, e anche per quella meno comune, il significato principale è quello: dire grazie alle donne, fare un omaggio alle donne, alle amiche, a mogli e fidanzate, o anche il “girl pride”, come scritto da te, eccetera.

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